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Il Web 2.0 È Morto. Il Web 3.0 Non Sarà Per Tutti.

Trovo molto suggestiva la presa di coscienza, che corre in questi giorni sulla Rete, rispetto a Grillo, alla Casaleggio e alla mancanza di democrazia reale e virtuale del M5S.
Trovo inopportuno questa corsa a mistificare la comunicazione politica, in quanto se manca la politica non è colpa del marketing o della comunicazione, ma della mancanza di visione, idee e contenuti politici.
Ma mi interessa più ragionare della Rete, l’episodio di Favia decreta ancora una volta che il web 2.0 è morto e che il web 3.0 non sarà per tutti.
Capiamo perché.
Dopo la fase utopistica iniziale del Web riservata al mondo accademico, durata fino al 1993, la saga del dot.com cresciuta fino al 2000, la sua rinascita come Web 2.0 intorno al 2003, e l’evoluzione in quando media di massa nel 2011, stiamo entrando nella quarta fase della cultura di internet, caratterizzata dal conflitto dell’agone pubblico e dall’auto-formazione a livello individuale delle opinioni pubbliche attraverso l’emotional sharing, ovvero la condivisione di emozioni.
Internet trova il suo posto nella vita quotidiana, diventa la vita quotidiana.
Modifica i nostri comportamenti, influenza il nostro modo di pensare.
L’ascesa delle reazioni online va attribuita alla maggiore volontà di articolare pubblicamente il proprio risentimento.
Gli utenti non si limitano più a correggere l’autore oppure dare un contributo all’intelletto generale – vogliono produrre qualche effetto.
I contenuti non vengono più giudicati in quanto tali, bensì automaticamente letti all’interno del contesto politico, culturale e mediatico in cui operano.

In ogni società la produzione del discorso è in qualche modo controllata, selezionata, organizzata e redistribuita da un certo numero di procedure con l’obiettivo di limitarne la potenza e i pericoli, di tenere sotto controllo i possibili eventi, di evitarne la poderosa, formidabile materialità.[1]

È l’insieme dello storytelling, ovvero di testi immagini ed esperienze vissute a livello mediatico che viene immagazzinato e riprodotto tramite riuso e il re-mixing.

Il medium non è soltanto il messaggio, bensì anche la mente. Dà la forma a quel che vediamo e a come lo vediamo.[2]

Ma “chi naviga parecchio online sembra perdere l’abilità di leggere e apprezzare racconti corposi e monografie dettagliate. Perde la capacità della lettura profonda”.[3]

Per natura tendiamo a filtrare, dimenticare, ascoltare e vedere in maniera selettiva, ma ciò non significa che dobbiamo dirci d’accordo sul fatto che tutto questo setacciare vada fatto da altri per conto nostro. Il pericolo sta nei filtri e nella loro invisibilità.

Il problema è il malfunzionamento del filtro, non il sovraccarico d’informazione[4].

I social network non riguardano l’affermazione di qualcosa come fosse una verità, quando piuttosto la creazione della verità tramite una serie infinita di click.

All’interno del web 2.0 è arduo trovare persone che si comportano in modo corretto.

Le reti sono informali, fluide e invisibili, un aspetto questo che va causando panico e confusione.

Internet è un terreno fertile per opinioni polarizzate e utenti tendenti all’estremo.

I social network crescono in un ambiente in cui il litigio inutile è diventato la norma e l’entropia ha raggiunto i suoi massimi livelli. In questo senso la distinzione tra segnale e rumore operata da Shannon ha perso il suo significato metaforico fondamentale, per cui tutto può essere considerato rumore. Per le macchine il rapporto segnale/rumore esiste, e viene affrontato con l’uso di filtri sempre più fini.

Oggi la psicopatologia si manifesta con sempre maggior chiarezza come un’epidemia sociale e, più precisamente,  come una epidemia socio-comunicativa. Se vogliamo sopravvivere dobbiamo essere competitivi, e per farlo bisogna essere connessi, ricevere ed elaborare in continuazione  un’immensa quantità di dati. Ciò provoca un costante stress di attenzione e la riduzione del tempo disponibile per l’affettività.[5]

Si chiama marketing self questa psicopatologia.

E gli influencers vivono questa malattia.[6].

Troppa esibizione, poca attenzione al loro ruolo.

Questo ci porta inevitabilmente a capire che il ruolo degli influencers è un ruolo politico.

Gli influencers sono sottoposti inconsciamente – nel migliore dei casi, nel peggiore sanno benissimo cosa vuol dire gramscianamente il proprio <io sociale> – ad essere ingegneria di una strategia dell’attenzione tesa a costruire framing o generare priming sui temi di interesse di parte e a generare nuovi stati di comportamento indotti volontariamente.

Gli influencers sono filtri: filtri della nostra attenzione, delle nostre emozioni, delle nostre labili opinioni.

I mercati sono conversazioni, ci raccontavano a fine anni novanta quelli del Cultrain Manifesto.

Grazie alla rete, i mercati diventano più informati, più intelligenti e più esigenti rispetto alle qualità che invece mancano nella maggior parte delle aziende.

Nelle conversazioni, la reputazione di una azienda è tutto; per questo la reputazione è soggetta a guerriglia informazionale da parte dei competitor.

Lo spread e la crisi sono state e sono guerre di speculazione informazionale, la nuova guerra veloce e invisibile capace di cancellare la democrazia in nazioni sempre più incapaci di reagire.

Le vere merci sono: attenzione, socialità, fiducia e reputazione.

Oggi difendere la reputazione, nei mondi dell’infosfera e della semiosfera, diventa una policy di sicurezza.

La sofisticazione delle tecnologie delle credenze collettive si fonda sugli immaginari e sul sentimento, perché l’immaginario non è che un terreno di sedimentazione in cui si sommano speranze e angosce, illusioni e delusioni che tutte insieme, sono la verità profonda del nostro mondo.

È questo il contesto in cui si è formato l’essere digitale del M5S.

Eccesso di forzatura di una ideologia posticcia, ma dominante, che fa del web 2.0 una sorta di nuova Zion, in cui partecipazione, democrazia e libertà sono i valori dell’essere.

Lo scontro di immaginari tra Bersani, che chiama Grillo fascista, si fonda sull’equiparazione di Grillo=Ideologia dominante della Rete.

Non sul riconoscimento o meno dell’essere fascista di Grillo.

In rete bisogna dirlo c’è una sorta di fascismo digitale.

Il fascismo digitale è quello di chi si finge democratico, racconta bugie alla rete, per aggregare partecipazione e sentimento, e invece cerca con ogni tecnica e tattica di tenere il potere in poche mani, ben salde, che dovrebbero gestire tutto.

È lo stesso motivo per cui “implose” La fabbrica di nichi, ed è la stessa dinamica utilizzata dal movimento cinque stelle. Tutti che predicano la rete, nessuno disposto a cedere sovranità alla rete.

Le reti sono organizzate secondo i principi dell’invarianza di scala, credere di poter costruire una rete con un solo HUB centrale che coordina e gestiste (gerarchicamente) tutti i singoli nodi, anche i più periferici, è una follia.

Occorre ripensare il modo in cui costruiamo e gestiamo le reti.
Le reti non hanno un centro, è una regola della grammatica della moltitudine.[7].

Il Web 2.0 è morto. Il Web 3.0 non nascerà dalle sue ceneri. È prediction, ovvero predizione. Anticipare trend che accadranno. Tutt’altra roba, ma questa è  un’altra storia.

 


[1] Michel Foucault in “Ordine del discorso”
[2] Nicolas Carrr, autore di “Google ci rende stupidi?”
[3] Maryanne Wolf, psicologa comportamentale
[4] Clay Shirky, autore di “Uno per tutti, tutti per tutti. Il potere di organizzare senza organizzazione”
[5] Franco Berardi Bifo, in “Precarious Rapsody”
[6] The 80-19-1 Rule
[7] Alessandro Tartaglia, post su FB del 7.09.2012
Posted by eugenio iorio - jacques bonhomme / 09/08/2012 / Posted in comunicazione - Jacu doi pi doi e dinčh incapûsât, Internet – انترنت, The 13th¾ Floor – piano ottavo

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